Salone Del Libro 2025: Federico Aru - Era la stessa luna
Federico Aru, nato a Cagliari nel 1984, è Dottore Magistrale in Scienze filosofiche. Dal 2016 vive e lavora a Torino, dove si occupa di formazione e progettazione educativa. Dal 2024 è ideatore, realizzatore e animatore del progetto lineafilosofica.it, una proposta di ricerca e sviluppo della pratica filosofica nella quale le competenze acquisite si coniugano alla passione per la lettura e la scrittura. È inoltre autore di tre romanzi: Mi ami? (Il Rovescio, 2012), Sulla scia del vento (Genesi Editrice, 2019) e Era la stessa luna (Nerosubianco 2024).
“Era la stessa luna”, edito da Nerosubianco, di che cosa narra?
Il romanzo breve narra l’esperienza di Mauro, un oristaneseemigrato a Torino che tenta di riscattare la sua vita personale e professionale. La sua è un’esistenza che mi piace definire “una collezione di solitudini”: ha una compagna, Luisa, con la quale fatica a costruire spazi di dialogo e di comprensione; ha pochi amici, tra cui Bacci e Chera, che non fanno che assecondare i continui (e sempre più violenti sbandamenti); ha una terra d’origine, la Sardegna, che lui ricorda in modo sfocato soprattutto grazie al rapporto sfilacciato con Laura, la sua amica d’infanzia. L’esistenza di Mauro è una “collezione di solitudini” perché non c’è né un legame tra tutte queste cose, né un progetto in forza del quale potrebbe in qualche modo riunirle. Quando un’esperienza drammatica lo colpisce in pieno e inaspettatamente, Mauro, quarantenne all’apparenza sradicato e solo, assiste al crollo repentino di quella “collezione”.
Penso che il tema principale del romanzo sia la solitudine esistenziale che ci rappresenta tutti. Le nostre vite sono sempre più costrette, sempre più in sofferenza, ed è sempre più raro godere di legami autentici o avere un progetto di vita che non sia semplicemente strumentale, materiale. Quando la prima idea del romanzo mi ha attraversato la mente, facendomi cogliere l’immagine appena abbozzata di Mauro, ho capito subito che cosa avrei dovuto comunicare con questo lavoro: cosa non vorrei essere, cosa spero che non mi accada, da che cosa non vorrei farmi catturare. Mauro mi ha aiutato a riattraversare i punti fermi della mia vita in modo più profondo e maturo; è stato un lavoro lungo, a volte difficile, altre molto emozionante, ma in ogni caso appagante proprio perché anch’io ho fatto collezione di solitudini!
Sì, in questo senso “Era la stessa luna” è stato (ed è) un passaggio fondamentale della mia crescita sia come persona che come autore, e provo verso questo romanzo una specie di affetto. Mi spaventa un po’ constatare che il nostro modo di vita sia intrappolato dentro una falsa idea di socialità. Questa illusione non riguarda soltanto i giovani, ma proprio tutti. La solitudine che Mauro sperimenta su di sé è infatti la condizione tipica dell’essere umano contemporaneo, che si guarda attorno smarrito, che scappa di fronte allo sguardo dell’altro, che affronta chiuso in sestesso il dolore e l’angoscia. Ad un certo punto della mia vita ho capito che io, da sardo, custodisco dentro di mequalcosa di prezioso. Sono le mie radici, la mia identità isolana, che su di me hanno fortunatamente ancora molta presa.
Sarei potuto essere anch’io uno dei tanti Mauro che ci circondano, e che probabilmente noi conosciamo? Forse sì. Essere sardi significa – almeno per me – vivere in modo intimo il rapporto con le proprie origini, e questo per almeno due aspetti: uno è la lingua, che porta sempre con sé un carico di significati, immagini e valori che sono intraducibili in modo completo in qualsiasi altra lingua. Questo, sia chiaro, vale sempre, per tutte le lingue, ed è un importante aspetto dell’identità culturale su cui occorre soffermarsi. L’altro è il mare, che separa in modo netto, inequivocabile, le terre. Ecco: quando è il mare a separare la terra dove sei nato dalla terra dove hai scelto di vivere, dentro di te si forma uno spazio vuoto, una parentesi, che prima o poi dovrai affrontare e provare a riempire di senso. Il mare è, per definizione, l’elemento che spezza la continuità della terra e che ti costringe a tornare in te stesso, a fare i conti con te stesso. È questo, io credo, a rappresentare l’esperienza di molti sardi che vivono fuori dalla loro terra.Per me è persino una fortuna che sia così! Ed è questo che cerco di testimoniare attraverso il libro.
A proposito: voglio ringraziare anzitutto Enrico Corona, il presidente dell’Associazione sarda Antonio Gramsci di Torino, che nella nuova sede in corso Umbria, tra l’altro inaugurata proprio il 17 maggio scorso, mi ha ospitato nella rassegna Trame leggère, cioè il palinsesto del Salone del Libro Off al quale ho partecipato con “Era la stessa luna”. Insieme a Enrico, voglio ringraziare anche Chiara Effe, che è parte attiva del direttivo, e che ha chiuso la tre giorni di Trame leggère con un’emozionante interpretazione di Non potho reposare. Io ero lì, in mezzo a un sacco di bella gente, e la sorpresa è stata grande. Il ringraziamento va esteso però a tutto il direttivo dell’Associazione Gramsci, che è composto da nove persone, tutte davvero appassionate e motivate a rendere quello spazio un luogo anche di cultura, oltreché di incontro, che va oltre il bisogno di rappresentanza di noi sardi a Torino. È, penso, un luogo di espressione inclusivo e arricchente per tutta la città…
Dunque l’amicizia, nei momenti di difficoltà ricorda quanto sono forti i legami con le proprie origini, ed è questo uno dei temi salienti di questo libro. Altri temi importanti?
Sì, l’amicizia tra Mauro e Laura, in buona sostanza, è la via attraverso la quale ho cercato di rendere concreto il messaggio che ho ripreso nella conclusione della risposta alla prima domanda. Quando ho immaginato Laura ho pensato di costruire un personaggio femminile con certecaratteristiche psicologiche, ma anche di fantasticare sul suo carattere e sull’influenza nei confronti dell’amico emigrato a Torino. Dopo un po’, però, mi sono reso conto che non era questa la strada.
Laura, per me, è il personaggio-chiave della storia, è la mia personale concezione della terra, è in pratica l’immagine delle radici. Quando Mauro, nel corso del suo tormentoso viaggio di ricostruzione di sé, si accorge di questo, si aprirà davanti al suo sguardo sorpreso un mondo che credeva di aver perduto. Scopre che l’amicizia, se è autentica, resistealle violente trasformazioni contro le quali ogni giorno noi ci misuriamo, spesso passivamente e non sempre volutamente. Devo dire che per me vale la stessa cosa: molte amicizie d’infanzia resistono, fortunatamente, ai cambiamenti epocali che hanno riguardato me come tutti. Sono amicizie che amo curare e raccontare agli altri, proiettare sul futuro… e questi pensieri mi rendono sereno.
Non è che basta avere amici, qualsiasi essi siano; certe amicizie sono importanti proprio perché non se ne vanno mai: evolvono, certo, cambiano anch’esse, ma in un quadro che è incommensurabile rispetto a quello che riguarda la nostra esperienza quotidiana. Oggi molti aspetti della nostra vita sono “volatili”. Mauro e Laura sono la prova di quel modo di “essere amici”, e non di “fare gli amici”, che a me piace tanto e che mi fa stare bene. Credo di essere riuscito ad esprimere un concetto che ritengo importante: “essere amici”, nel tempo, nonostante tutto. Questa è un’esperienza che può salvarci dagli schianti che prima o poi la vita ci riserva. Il romanzo tratta, inevitabilmente, anche di altro.
Devo dire però che non è semplice raccogliere tutte le tematiche in un’unica lista, perché ogni volta che rileggo “Era la stessa luna” scopro qualcosa di nuovo che prima mi era sfuggito. Ed è vero che ogni lettore ci trova cose diverse, che io stesso non ho previsto. Questo mi piace e mi fa capire che nella storia che ho scritto sono stato capace di non commettere l’errore di “spiegare” un tema piuttosto che un altro, godendomi semplicemente il piacere di attraversare la storia stessa mentre la scrivevo. Alcuni temi però sono evidenti, e rappresentano tra l’altro il mio attuale interesse di ricerca: il perdono, soprattutto, ma anche la fede e le relazioni di genere. Su quest’ultimo punto aggiungo un pensiero che ho molto a cuore: “Era la stessa luna” ha un personaggio principale, cioè Mauro, e questo è evidente pensando al focus narrativo scelto per sviluppare l’intreccio. Ma l’esperienza di Mauro, io credo, sarebbe del tutto piatta senza l’azione delle varie figure femminili che compaiono nella scena: Luisa, Laura e poi Arianna. Queste tre figure sono i “fuochi prospettici” che fanno apparire la storia di Mauro in modo tridimensionale. Penso che questi spunti daranno vita a nuove idee per il futuro…
La presentazione del romanzo “Era la stessa luna” al Salone del Libro Off 2025 è stata eseguita dal perfomerMarcello Carrieri, come vi siete conosciuti?
Marcello ha accettato subito la sfida: presentare il libro non parlandone, ma facendo “vedere” la storia attraverso un gesto teatrale e alcune letture mirate. È stata una sfida perché non è mai facile per nessuno guardare un proprio lavoro, qualsiasi esso sia, con occhi critici, meno ancora superarlo per andare oltre quello che il lavoro stesso ha permesso di raggiungere.
Quando ho immaginato la struttura di fondo della presentazione del 17 maggio in corso Umbria ho cercato di andare oltre la natura stessa del libro, cioè di essere, appunto un romanzo. Ho immaginato Mauro sul palco, ed io mi sono immaginato un narratore. Ho “visto” subito la scena nella mia mente! Marcello non poteva che essere la persona giusta… l’ho incontrato per la prima volta nel 2011, credo. Entrambi partecipavamo a un corso di lavoro a Marina di Massa, in Toscana. All’epoca lui faceva il direttore di soggiorni vacanza estivi per bambini, ed io, invece, iniziavo il mio percorso di coordinamento. Poi ci siamo rincontrati in Liguria, dopo un paio d’anni, e abbiamo svolto per un certo periodo lo stesso lavoro. Al centro c’erano sempre i bambini, e i nostri ruoli erano analoghi. Lui lo vedevo animare con molta energia il palco, era come il suo ambiente naturale, e da lì si sprigionava sempre una certa energia. Io, invece, raccoglievo in appunti vari piccoli pezzetti di fantasia raccolti qua e là ascoltando gli stessi bambini. La mia energia non emergeva dal palco, ma dalla penna, e così sono nate molte delle storielle della buonanotte che poi sono diventate un libro.
Comunque, colgo l’occasione per ringraziare di nuovo Marcello e per ripetergli quello che gli ho già detto a voce: senza il suo contributo non avrei mai “visto” Mauro in scena; per me è stato emozionante. Insieme a Marcello, però, sulla scena di Trame leggère c’erano quattro donne: Francesca, Silva, Maria e Angela, che fanno parte, come me, del Circolo sardo Gennargentu di Nichelino. Loro sono state capaci di rappresentare la Sardegna attraverso la loro arte di intrecciatrici. Quei cestini, che prendevano forma mentre io e Marcello rappresentavamo le vicende salienti del libro, per me hanno restituito un’immagine plastica ed emozionante dell’identità sarda che mi (e che ci) lega alla nostra terra. Ci tengo anche a ringraziare il presidente del Circolo Gennargentu Efisio Cicu, che ha partecipato personalmente alla presentazione, e Rita Murgia anche leidel direttivo del Gennargentu, che mi ha aiutato a coinvolgere il gruppo delle intrecciatrici. Insomma: ho potuto fare quello che ho fatto grazie alla generosità di molte persone, e questo è un fatto che merita di essere sottolineato.
Quanto è importante per te scrivere?
È una bella domanda. C’è un aneddoto che dimostra quanto la scrittura sia sempre stata parte di me, il mio modo naturale di essere. Frequentavo la terza elementare, l’insegnante della mia classe era maestra Maria Alba. Si usava scrivere tanto, erano i cosiddetti “pensierini” (termine ingeneroso nei confronti di quello che è stato un preziosissimo esercizio di immaginazione e di creatività durato almeno fino alla quarta elementare), maestra Maria ci faceva trascorrere molto tempo sia tra i banchi sia a casa a studiare la grammatica italiana in questo modo.
A me è sempre piaciuta la scuola, ma realizzare i “pensierini” mi piaceva sopra ogni cosa: curavo molto l’idea, scrivevo delle prove in brutta, le rileggevo più e più volte perché mi interessava il “suono” delle parole. Spesso gli aspetti grammaticali non mi appagavano del tutto, e una frase brutta, anche se corretta dal punto di vista grammaticale, la strattonavo finché non diventava come io la volevo io. Ero un po’ troppo ostinato forse, ma tant’è…
Una volta maestra Maria mi fece andare alla cattedra e mi chiese di portarle il quaderno. A me non piaceva espormi di fronte agli altri. Ma ciò che accadde dopo fu di gran lunga peggio. La maestra lesse a voce alta ciò che avevo scritto, e la si poteva sentire mentre calcava certe espressioni e certi costrutti come se fosse contrariata. Il fatto è che qualcosa non le piaceva, e dev’essere che leggendo si era fatta un’opinione completamente sua del Federico che era l’autore di tali “pensierini”.
Ad un certo punto si arrabbiò sul serio, e non fu bello per me: disse a tutti, quindi anche a me, ma non direttamente a me, che «Non si usa il computer per fare i compiti a casa, perché si vede che questa non è farina del suo sacco!» Ora: sto parlando dei primi anni Novanta in Sardegna, e questo deve farci osservare una cosa: il “computer” entrato in casa mia non era che una banale macchina funzionante con un ms-dos, completamente priva di potenzialità tanto avanzate da rendere possibile un progetto temerario come quello che la maestra aveva immaginato. Figuriamoci poi internet: erano davvero altri tempi.
No, non scrissi mai quei “pensierini” al computer, e quell’affermazione mi colpì a tal punto da restare impressa nella mia mente per sempre. Molti direbbero – e infatti è stato detto – che quella fu per me un’umiliazione. Io non la penso così. Certo, in quel caso maestra Maria si fece un’idea sbagliata di me, ma con questo non ho perso neppure un grammo della stima che nutro per lei e per quello che fece nei primi cinque anni di scuola. Semplicemente, quell’episodio mi spinse ancor più a dimostrare che le cose che scrivevo fossero “farina del mio sacco”!
La scrittura è importante per me, dunque, perché fin da piccolo ha rappresentato un territorio di sfida, uno spazio di incontro e di scontro costruttivo con la figura del maestro. Territori come questi, spazi come questi, oggi sono più rari. Io ho vissuto il rapporto con l’autorità del maestro non passivamente, ma, al contrario, come spinta a fare sempre di più e sempre meglio. Ma, anzi tutto, quell’episodio è come se mi avesse spronato a esplorare più a fondo qualcosa (una passione?) che non mi avrebbe più abbandonato.
Oggi riconosco l’inestimabile valore di quei primi insegnamenti e colgo l’occasione per ringraziare la signora Maria Alba per quello che ha fatto per tanti studenti come me. Ora lei non c’è più, ma mi piacerebbe che Donori, il mio paese d’origine, dedicasse a lei uno spazio pubblico. È stata la maestra di molti, un esempio di coerenza e di integrità che credo meriti un riconoscimento. E riconosco questo nonostante l’aneddoto che ho raccontato.
Progetti futuri?
Ci sono molte idee, l’entusiasmo e l’energia fortunatamente non mancano. Ma una in particolare sta prendendo forma e riguarda una tematica su cui ho già detto qualcosa poco fa. Ultimamente sento il bisogno di pensare, oltreché di scrivere, sulla violenza di genere. Sono molto preoccupato, come essere umano in primo luogo, e poi come uomo e come padre. E qui l’ordine delle cose conta: prima di tutto come essere umano.
C’è in me il bisogno di andare alla radice di questa piaga, di scoprire la trama intricatissima che riveste il fenomeno della violenza di genere e di farne un argomento di confronto quotidiano, a cominciare dalla famiglia. La violenza di genere ha radici culturali e sociali e su questo non c’è dubbio. Se neghiamo questo, semplicemente stiamo guardando da un’altra parte e non ci sarà mai modo di intraprendere un dialogo vero, alla maniera dei filosofi greci, che prima di discutere intorno a determinate cose si assicuravano che ognuno dei dialoganti stesse osservando, pur dalla sua prospettiva particolare e diversa, lo stesso oggetto. Lo stesso problema, diremmo noi oggi.
C’è una radice esistenziale del problema, un po’ meno visibile delle altre, che credo di poter (e dover) fare emergere. Sto parlando della crisi valoriale che affligge l’essere umano contemporaneo, cioè dell’assenza di valori universali in senso forte che ci aiutano a custodire i fondamentali della nostra vita, come la dignità, la libertà, l’unicità, l’irripetibilità e la differenza dell’essere umano, che mi toccano e mi preoccupano perché la minaccia alla quale queste cose sono esposte rischia di farci perdere contatto con un’idea di “essere umano” che io ho imparato a coltivare. I valori possono anche cambiare, e infatti cambiano; possono anche decadere per fare posto ad altri valori, e infatti decadono continuamente perché altri si collochino al loro posto. Questo fenomeno è noto ed è socialmente comprensibile.
Ma ci sono almeno due questioni su cui, da umanista appassionato e convinto, mi sento di puntare i riflettori: la prima è che ci sono valori, che si chiamano universali, che non possono essere soppiantati da altri valori senza che con ciò la nostra percezione umana della vita venga meno. La nostra Costituzione difende questi valori, la Dichiarazione universale dei diritti umani fa altrettanto, e non di meno lo fanno la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza o l’Agenda 2030. Il fatto che tali valori siano sempre riconoscibili nell’impalcatura di questi traguardi istituzionali non è un caso: perderli di vista vuol dire allontanarci da una certa concezione dell’essere umano, da una idea di umanità dell’uomo che evidentemente non mai data per scontata!
È forse sconcertante scoprirlo, ma è nostro dovere continuare a tenere alta l’attenzione su questo punto: purtroppo l’umano non è un fatto a priori, nel senso di essere dato a prescindere da quello che accade e del modo in cui ciò che accade, appunto, accade. La storia lo mostra, e noi dovremmo ricordarcelo sempre. L’umano può anche evolvere, se non involvere, in qualcosa che umano non èpiù. Ecco: oggi, parlando di violenza di genere, sento il bisogno di richiamare l’attenzione su questa prima questione.
Ma una seconda questione, legata alla prima, non mi sembra meno importante. Si tratta della percezione che i giovani hanno dei valori universali e delle conseguenze che derivano dalla loro decadenza o trasformazione. Non è vero che i giovani non abbiano valori! Questa convinzione è degli adulti, spesso è il risultato di un’interpretazione dei giovani che non si fonda sull’ascolto diretto dei giovani, ma dalla costruzione di un monstrum che si chiama Giovane e che ovviamente spaventa. Ascoltando più attentamente i giovani, invece, si scoprono idee, pensieri e convinzioni che nominano gli stessi valori universali, ma con linguaggi difficili da decifrare. A volte sfuggenti.
Qui sta il problema: non riuscendo a decifrare quei linguaggi, non ci accorgiamo del “mondo interiore” che i giovani custodiscono intimamente. Non basta: i giovani stessi fanno fatica a nominare quel mondo, perché non hanno le parole per farlo, perché hanno gli strumenti, e neppure a volte il coraggio. Hanno un mondo dentro, ma non lo sanno esprimere. Riusciamo a immaginare questo dramma? Se noi aiutassimo di più e meglio i giovani a portar fuori il loro mondo interiore, senza pregiudizi e senza ansie apocalittiche, ci accorgeremmo che sotto certi aspetti loro continuano a guardare lo stesso oggetto nostro, lo stesso problema. Ricordate cosa ho detto a proposito del dialogo? Ecco: è ancora possibile dialogare con i giovani intorno a questioni cruciali come i diritti universali, ma è necessario un lavoro preliminare. Per me è questo il significato concreto, attuale e praticabile di “educazione”.
Dobbiamo aiutarci tutti un po’ di più. Dobbiamo permettere che i giovani esprimano quello che hanno dentro attraverso parole nuove, forme nuove, che non si riducano al linguaggio musicale, e che per esempio potenzino quello narrativo e quello poetico. Ci accorgeremmo che loro parlano di vita, di dignità, di libertà e di altre cose che, seppur in modi diversi, continuano ad affermare la centralità dell’umanità degli individui. E non mi sembra poco…
Una canzone che pensi ti possa rappresentare e che chiude questa intervista ad ERRE18.
C’è una canzone che Cristiano De Andrè eseguì, con una profondità veramente straordinaria credo nel 2009, durante un concerto di suo padre Fabrizio. La canzone si intitola Nel bene e nel male, e mi rappresenta perché sa scuotermi emotivamente, ogni volta che la ascolto.
Io non penso che tutto passi, nel bene o nel male, perché fortunatamente qualcosa resta. L’ho detto prima, lo ripeto adesso e mi piace tenere alta l’attenzione su questo punto. Quella canzone, però, su di me ha un potere che raramente riconosco alla musica: mi mette di fronte alle paure, alle speranze, ai sogni, alle cose che spero non mi accadano mai e a quelle che, accadendo, mi fanno sentire vivo. Se la ascolterete, magari dopo aver letto qualche mia pagina, penso non vi sarà difficile immaginarvi un po’ chi sono e un po’ che cosa ho dentro.