Intervista con Maurizio aka Noodecay
20 anni, romano, nel programma Indaco racconta
per la prima volta la sua esperienza da hikikomori
e come, grazie alla rete, sia diventato musicista
Quando il ritiro sociale volontario si manifesta in tutta la sua forza, tutto appare chiaro, ma il quadro cambia se si vuole andare alla radice del fenomeno. Nel tuo caso, a cosa puoi ricondurre l’inizio del percorso?
Tutto nasce dall’incapacità di ascolto da parte di chi ci sta intorno. Moltissime persone, purtroppo anche genitori, non sanno ascoltare e questo produce danni, fa perdere tempo e complica ulteriormente una situazione già precaria. Nel mio caso, penso di avere provato una sofferenza iniziale poco prima di diventare adolescente. Nessuna delle decisioni attuate nei miei confronti è stata positiva, a partire da quella di portarmi da uno psicologo. In quel momento stavo male e nello stesso tempo sentivo di non potermi sfogare, tirando fuori tutto ciò che provavo dentro di me.
Molti dei genitori che sono intervenuti nel nostro programma hanno testimoniato come il rapporto con la scuola sia diverso a seconda della sensibilità dei dirigenti e del corpo docente. Qual è stata la tua esperienza sotto questo profilo?
L’unica cosa che mi ricordo è che la scuola non mi ispirava in alcun modo, aprivo a malapena i libri…e poi la scuola non significa solo lo studio, ma anche l’ambiente sociale. Sentivo di essere completamente estraneo tanto che, nei giorni precedenti la scelta di lasciare in modo definitivo, in pratica stavo in classe immobile per tutte e sei le ore, con la testa bassa a guardare il pavimento, aspettando che finisse tutto prima possibile.
Spesso i genitori di ragazzi hikikomori riflettono che voi abbiate scelto una modalità dirompente per mettere in luce, a modo vostro, i problemi più gravi della società in cui viviamo. Ti ritrovi in questa analisi?
Le persone sono cieche, non c’è dubbio. La società di oggi pone le sue radici nei controsensi: ho provato sulla mia pelle cosa significhi avere a che fare con persone che sostengono di aiutarti, ma in realtà fingono di farlo, ponendo in atto le tattiche proprie dei bulli. Considerando che a un certo punto sono anche caduto in depressione, mi rendo conto che per tre o quattro anni non ho nemmeno parlato, smettendo di interagire completamente con il mondo circostante.
Entrando nello specifico per rendere ancora più evidente la dinamica che si metteva in atto, quando ti rendevi conto di trovarti di fronte a qualcuno che non volesse realmente ascoltarti ed entrare in empatia con te quali emozioni emergevano?
Mi rendo conto che sia difficile comprenderlo, però provavo un piacere morboso nel prendere le distanze da loro. Uso volutamente un’immagine forte perché non mi è mai piaciuto girare intorno alle cose: averci a che fare era come quando trovavo una merda di cane per la strada…dovevo solo evitarla facendo attenzione a non schiacciarla. Tutto qui. A pensarci bene, ho impiegato tanto tempo a capire che dovevo ricominciare a parlare perché non ho mai sentito una guida che mi dicesse cosa fare e come comportarmi…non è facile venirne fuori da soli. Di conseguenza ho sempre agito d’impulso, tanto che alla fine tutto ciò che ho imparato è diventato “mio” solo dopo che ho sbattuto la testa agendo in prima persona, e devo dire che questa consapevolezza mi ha dato forza.
Con l’azzeramento totale dei contatti umani e dei rapporti sociali, il tuo tempo era occupato in modo esclusivo da Internet, che spesso è demonizzata ma in realtà è uno strumento neutro e per esempio permette a Radio ERRE18 di trasmettere. Adesso che visione hai della rete?
Certo non posso negare che stare sempre connesso non sia sano…però la rete mi ha permesso di imparare l’inglese, grazie ai giochi che mi “costringevano” a imparare la lingua per proseguire, e soprattutto di appassionarmi alla musica. Ho iniziato a produrre basi musicali e mi auguro che questo possa diventare il mio lavoro. Sento che questa è la mia strada…mi fa piacere che l’intervista in radio (durata eccezionalmente venti minuti, ndr) si concluda con l’ascolto della mia base “Overdosing Hate”. Il titolo, che sta per overdose d’odio, in realtà è fuorviante perché, pur dando un’impressione aggressiva, tende alla desolazione, più che all’odio, e alla tristezza, più che alla rabbia.